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Per
raccontare ciò che è stata per noi la conferenza spettacolo Improbabili
previsioni del tempo tenutasi nelle
giornate dal 7 al 10 ottobre 1999
negli spazi del magazzino n. 28 della Ex centrale frigorifera
specializzata di Verona,
abbiamo scelto di affidarci
al “tempo del ricordo”.
Per
noi la conferenza era iniziata nel momento in cui posammo il piede
in quel capannone, mappato per l’appunto con il numero 28, completamente
abbandonato dalla amministrazione veronese al suo destino e non
incluso negli spazi che l’associazione Interzona allora gestiva,
un territorio cioè che per essere vissuto doveva essere conquistato….sul
pavimento 20 centimetri di guano…….
La
straordinaria consistenza del luogo ci era apparsa al bagliore del
fulmine che diradava la nebbia dei vapori e polvere di guano.
Il
cozzare incessante dei volatili sui vetri frantumati delle finestre
metalliche ci stordiva ma
non allontanava la nostra attenzione da quelle strisce di guano,
binari di materiale organico: all’estremità scheletri di piccioni.
Rampe di missili di una civiltà lillipuziana pronta a lasciare il
pianeta.
L’acqua
scorreva dalla tettoia lacerata e seguiva i declivi naturali per
imboccare le brecce del pavimento. Le cascate univano i due piani
dello stabilimento.
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Come
collocare il tempo in quel luogo?
Le
misure dei plinti, le distanze tra le colonne, le altezze dei capitelli,
le ombre lasciate dai pozzi e poi quelle distanze incolmabili, la
bicicletta per raggiungere il fondo, per attraversare quel labirinto
di colonne. Camminavamo lenti, parallelamente tra le due navate,
piccoli calci alzavano nuvole. Mi urlava: “Familar stranger”… era
questo in effetti quello che ci assillava . In quel luogo dai colori
di una nebbia novembrina quelle parole lanciate ci venivano ridonate
dal luogo con l’eco di un grido smorzato, una bocca pronta all’urlo
ma prontamente tappata.
Quelle
parole “soffocavano” ma sembravano scie di luce. Aggiravano le colonne,
si alzavano attraversando le brecce, ci parlavano da sopra. Sì,
perché tutto sembrava sdoppiato, un sotto e un sopra.
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Che
è adunque il tempo?
“Familar
stranger” rispondeva. Mi ero fermato: sentivo la bocca del 28 alle
mie spalle. Forse quaranta metri dietro. E mi rimbalzavano nella
testa CHRONOS e AION.
“Chronos
è immagine mobile di Aion” le urlavo. Poi ad un certo punto successe
qualcosa: la vetrata n° 18 sul lato sinistro era improvvisamente
andata in frantumi: venti, trenta volatili mi vennero incontro,
e con essi l’immagine del film. Mi ero buttato a terra: il guano,
miscelato all’acqua piovana, puzzava tremendamente. Una goccia dal
soffitto mi toccava la nuca.
“Noi
chiamiamo noi stessi la necessità in cui ci ritroviamo di riferire
ogni cosa ad un unico oggetto, sempre lo stesso. Se noi percepissimo
la variazione reale di questo oggetto, che di per sé deve necessariamente
cambiare, non avremmo più io…..”
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Non
riuscivo quasi più a leggere nel mio block notes, l’acqua allargava
macchie sull’inchiostro della stilografica.
Mi
ero alzato e correvo; urlai: “L’io è costante soltanto mediamente,
ricorda, è io soltanto mediamente….”
Che
è adunque il tempo’
O
meglio, chi è adunque il tempo?
C’erano
troppe cose che si accavallavano nella nostra testa: la cinematografia
di Platone, il sogno di Einstein, l’eco di Bergson; i filosofi della
temporalità autentica sembravano trovare improvvisamente il quicker
in Ilya Prigogine che sembra vincere la partita e infilare la testa
di cane sulla punta.
Ma
Penrose ci riportava all’inizio. Tutti ci rendiamo conto dello scorrere
irreversibile del tempo, che sembra dominare la nostra esistenza,
nella quale il passato è immodificabile e il futuro è aperto.
Possiamo
desiderare di far girare all’indietro le lancette dell’orologio…ma
purtroppo, il senso comune ci dice che non è possibile: il tempo,
come la marea, non aspetta nessuno.
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Il
28 cominciava a diventare l’arbitro di quella disputa: non ero certo
un fans dei teorici della freccia della tempo anche se il secondo
principio della termodinamica era scolpito a chiare lettere nella
mia mente e sentivo come un ronzio fastidioso il loro lamento.
“
E’ piacevole dover constatare che la concezione del tempo propria
del senso comune trova scarso credito in molte teorie scientifiche,
nelle quali la direzione del tempo non ha molta importanza.”
In
effetti, e me la ridevo, la meccanica newtoniana, la relatività
einsteniana e la meccanica quantistica che costituiscono il grande
edificio della scienza moderna, funzionerebbero altrettanto bene
se il tempo scorresse all’indietro.
Che
è adunque il tempo?
“
Se nessuno me lo domanda lo so, ma se voglio spiegarlo non lo so;
eppure con fiducia sento di poter affermare che se niente passasse
non ci sarebbe tempo passato e se niente avvenisse non ci sarebbe
tempo presente.”
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Il
carrello avanzava ed io indietreggiavo. La saracinesca era il boccascena
di un palcoscenico profondo 60 metri. Il lungo binario metallico
ci univa. Angolare 25 x 25, ruote cementate in acciaio a coda di
rondine; i dischi degli erpici di certe macchine agricole potevano
andare bene per assemblare dei pendoli rigidi; si, pendoli attaccati
all’alta volta.
Vedevo
l’acronimo di Masque come M.A.S.Q.U.E.: Measure Absolute Space Quantum
Unidirectional Euclidean e sopra una sorta di scrivania che viaggiava
come un pendolo; una sorta di carrello per il conferenziere su binari
ricurvi con fulcro su uno gnomone immaginario.
E
un organo temporale: mi ricordavo di Sant’Agostino che diceva che
il tempo si può misurare con la voce…
Ero
lì, col carbone a scrivere sulla parete di fondo: “Eppur questo
non basta”
La
sua mano sulle spalle mi ridestò:
“Ma
siamo proprio sicuri che la filosofia abbia contribuito ad impostare
in maniera decisiva il problema del tempo?”
Stavo
ritirando lo scontrino al casello di Verona Sud e quella domanda
non riuscivo a togliermela dalla testa.
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Al
Ramo Rosso era chiaro ciò che sarebbe dovuto succedere: certamente
non passare in rassegna le innumerevoli metamorfosi delle “visioni”
moderne e postmoderne del tempo, quanto piuttosto cercare di individuare
la dimensione, ossia lo spazio, del nostro tempo.
E
per compiere questo passo non c’era
che una strada: gettare un ponte tra il mondo di Platone
– meglio la platonica “conversione dello sguardo” e il perturbante
implicito nello spazio-tempo della relatività einsteniana e nell’indeterminato
della meccanica quantistica.
“Veramente
lei è convinto che la luna esiste solo se la si guarda?”
L’immane
lavoro che ci aspettava e quel palcoscenico così difficile, 60 x
30, metteva dubbi su quello che sarebbe effettivamente successo.
Una cosa era certa: la luce pesa. Una cosa era almeno certa, sul
resto si discutesse pure: i raggi luminosi in prossimità del sole
non procedono in linea retta.
Che
è adunque il tempo?
Familar
stranger
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“Nessuna
percezione del divenire è innocente, poiché nessuna percezione può
prescindere da una struttura originaria che la precondiziona e la
contamina spazialmente. Spazio simbolico originario, presupposto
dalla stessa misurazione, che pregiudica a priori qualsiasi pretesa
di autenticità. Come potremmo fare esperienza degli eventi della
nostra vita se non li collocassimo, non solo nel ricordo ma anche
nel momento in cui accadono, all’interno di una scena? Se non fossimo
capaci di sognarli non solo in stato di sonno ma anche di veglia?”
Veramente lei è convinto
che la luna esiste solo se la si guarda?
Come
l’acqua nell’acqua si perdette……..
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